Rubrica Dott.ssa Jenny Santi
27 gennaio Giornata della Memoria… senza memoria
27 gennaio giornata della memoria, ma è vera memoria? Già perché ricordare i campi di sterminio, le atrocità della guerra e i milioni di morti significa avere capito gli errori del passato, avere a cuore la dignità e la vita di ogni singola persona, impegnarsi affinché quei tragici avvenimenti non avvengano più.
Ebbene abbiamo la dimostrazione che la memoria, quella memoria non c’è se non soltanto in apparenza, nel riproporre un film sull’olocausto, qualche articolo… ma è solo superficie!
Se veramente ci fosse quella memoria allora non saremmo mai arrivati a vedere la sanguinosa guerra tra Russia e l’Ucraina e decine di altri conflitti in tutto il mondo di cui nemmeno si parla.
Mai mi sono sentita così lontano dalla politica europea! E sì che io coi fondi europei ci lavoro tutti i giorni e ricordo bene con quanta ammirazione avevo studiato da bambina la visione degli intellettuali fondatori di quella che sarebbe diventata la Comunità Europea: questo consorzio di paesi avrebbe dovuto essere uno strumento di reazione alla seconda guerra mondiale, mettendo assieme popoli che avevano lottato l’uno contro l’altro per secoli e conducendo finalmente assieme una politica economica dell’interesse di tutti i cittadini.
Ma dov’è quella politica ispirata alla pace oggi? L’Europa non è stato in grado di cogliere i tanti segnali premonitori del conflitto in Ucraina legati ad un territorio conteso da anni, e oggi, a distanza da un anno dallo scoppio della guerra, i nostri governanti sono solo in grado di agevolare la consegna di armamenti per garantire la continuità di uno scontro che fa sempre più morti, distruzione e rovina.
No! Questa non è l’Europa a cui appartengo e che mi appartiene, questo è l’Europa degli affaristi, dei grandi interessi industriali europei ed oltreoceano.
E se si apprezza l’impegno di una ragazza che si è abbattuta per l’ambiente ancora di più dovremmo avere il coraggio e la determinazione per opporci tutti assieme a questa politica belligerante, dovremmo chiedere tutti assieme che si obblighino i due contendenti ad un dialogo, che è ancora possibile ma che non si vuole in alcun modo raggiungere né tantomeno agevolare.
No, non c’è memoria oggi.
Errare humanum est sed perseverare diabolicum Cicerone
27 gennaio Giorno della Memoria… o forse no
Il Giorno della Memoria ricorda la liberazione del campo di concentramento di Auschwitz avvenuta il 27 gennaio 1945 da parte delle truppe dell’Armata Rossa e la fine dell’Olocausto.
Da quando nel 2005 le Nazioni Unite istituirono formalmente tale giornata ci siamo abituati attorno al 27 gennaio a vedere spot, manifesti, mostre ispirate a tale ricorrenza.
Ma cosa significa davvero “Giornata della memoria”? Che cosa ci ha concretamente insegnato un dramma che ha portato alla morte di milioni di persone incitando alla violenza e ad una presunta superiorità di razza?
Non basta mettere qualche post sul proprio profilo fb se poi si aggredisce il proprio vicino di casa, non ha senso proporre nelle scuole la visione del film Schindler List se poi si fa finta di non vedere casi di bullismo…
Non ha nemmeno alcun valore il fatto che il nostro Stato finanzi spot pubblicitari per rammentare la ricorrenza del 27 gennaio se poi si assecondano gli Stati Uniti che da settimane minacciano la Russia con la scusa di voler “difendere l’Ucraina”.
I meno ingenui sanno bene che la situazione in tale zona è ben più complessa e riguarda prettamente ambiti economici e di predominanza politica non certo di tutela verso una popolazione ucraina esasperata da tempo da un presidente accentratore e da un’amministrazione pubblica corrotta a tutti i livelli.
Avrebbe piuttosto senso rammentare al nostro Paese e a tutti gli stessi membri dell’ONU uno degli obiettivi riportati nel proprio statuto: “il mantenimento della pace e della sicurezza mondiale, lo sviluppo di relazioni amichevoli tra le nazioni, il perseguimento di una cooperazione internazionale e il favorire l’armonizzazione delle varie azioni compiute a questi scopi dai suoi membri”.
E ciascuno deve fare la propria parte…
Avere memoria per noi cittadini significa dimostrarlo tutti i giorni, con i propri gesti, scegliendo di non far finta di non vedere i torti e gli abusi subiti da altri.
Avere memoria per lo stato italiano significa avere compreso che l’aggressione verbale e militare verso un’altra nazione può portare solo all’incitamento all’odio e alla violenza e bisogna invece avere la capacità politica di mettersi ad un tavolo e promuovere il dialogo, individuando i valori comuni, le speranze di pace condivise dai popoli di tutto il mondo.
Bisogna avere memoria del passato perché la sofferenza di milioni di uomini e donne non sia stata vana, per non cadere più nel vortice della violenza, per coltivare ogni giorno il coraggio di cambiare il mondo e in meglio.
“Il passato non si cambia, ma se si cambia il presente si finisce per cambiare anche il futuro.”
Jean-Paul Malfatti, Poeta contemporaneo italo-americano
Accanto alla libertà di stampa pretendiamo notizie di qualità
Ieri era la giornata mondiale della libertà di stampa, tema che rispetto profondamente non solo per la mia esperienza in campo giornalistico, ma anche perché sono convinta che ogni paese del mondo debba garantire libertà di pensiero, di parola e di espressione per consentire ai cittadini di esprimersi e di conoscere e poi decidere e valutare in modo più consapevole e responsabile.
Propongo però di aggiungere anche una giornata dedicata al diritto da parte dei cittadini di essere correttamente informati…
Il mio riferimento vuole riguardare principalmente i notiziari sulla rete di stato del nostro paese, dove abbiamo la fortuna di essere distanti anni luce dai paesi in cui il diritto di parola è soffocato dalla violenza, ma dove è anche giusto riconoscere che l’offerta dei temi trattati è estremamente ristretta rispetto alla moltitudine di avvenimenti importanti avvenuti a libello mondiale nella stessa giornata. A ciò si aggiunge purtroppo frequentemente anche la mancanza di completezza delle notizie e il loro discutibile ordine di presentazione.
Solo un paio di esempi tratti dai tg di oggi, precisamente dal tg1 delle 13.30: per quanto possa essere curioso sapere che Bill Gates si sia diviso dalla moglie dopo 27 anni di matrimonio mi lascia perplessa che la notizia preceda quella sul grave incidente avvenuto a Città del Mexico dove la caduta di un ponte al passaggio della metropolitana ha causato almeno 23 morti e 70 feriti.
E mi lascia altrettanto delusa ascoltare da giorni una notizia importante come quella dell’emergenza sanitaria da covid in India senza che venga correttamente citata anche la situazione demografica del popoloso stato asiatico. Mi spiego, se il telegiornale italiano mi parla di “ben 3449 morti in una sola giornata”, per diritto di cronaca dovrebbe anche ricordare che l’India ha 1.390.456.911 abitanti (rilevamento al 10.04.2021); ciò significa che, paragonata con i 59.257.566 cittadini dell’Italia, è come se quest’ultima in proporzione avesse avuto 146 vittime, ossia un numero decisamente inferiore a quello reale dei morti da covid nel nostro paese… tradotto… in Italia, proporzionalmente alla popolazione, attualmente c’è una maggiore mortalità da covid rispetto all’India. Ma questo i tg non ce lo stanno dicendo.
Voglio essere chiara: non voglio assolutamente mettere in dubbio il fatto che vi sia una grave crisi umanitaria in India, la mia vuole invece essere una riflessione sulla necessità di completezza dell’informazione che spesso manca e può essere fuorviante.
Altro esempio è quello in cui i notiziari parlano di dati statistici, citando opinioni e preferenze di persone intervistate: peccato che non venga citato il campione di cittadini su cui è stata fatta l’indagine…1, 10, 100 o 1000 persone? Ovvio che più è ampio il campione più è attendibile la notizia, peccato che non vengano comunicati riferimenti in merito.
E ora concedetemi una precisazione anche sulla parola “censura”, usata e abusata in questi giorni dopo la diatriba tra RAI e Fedez a cui però non intendo far riferimento in questo articolo. Ho sentito più volte affermare che la RAI non deve censurare nulla e in nessun caso. Attenzione a questa affermazione generalista: un conto è garantire il diritto di parola e all’informazione, dare spazio a contributi differenti, portatori di punti di vista diversi, un altro conto è invece dire che la RAI debba trasmettere qualunque cosa venga proposta. Essere canale di stato significa anche offrire la garanzia di un servizio, verificandone il contenuto prima che venga trasmesso, ciò affinchè principalmente non contenga falsità, volgarità o contenuti che possano urtare la sensibilità degli spettatori (ad esempio dei bambini).
Ecco quindi cosa dobbiamo pretendere dalla società concessionaria in esclusiva del Servizio Pubblico radiotelevisivo e multimediale in Italia e nel cui statuto sono già riportati chiaramente gli obiettivi che dovrebbe avere l’azienda RAI: “deve garantire, quale servizio di interesse generale, il raggiungimento di obiettivi di pubblica utilità… favorire l’istruzione, la crescita civile, la facoltà di giudizio e di critica, il progresso e la coesione sociale”.
Ricordiamocelo tutti noi utenti, tenuti peraltro al pagamento di un canone annuo per i servizi RAI, e ricordiamolo anche a chi ogni giorno ci propone informazioni incomplete e fuorvianti, lontane dagli obiettivi riportati nello statuto della rete di stato.
Se la libertà significa qualcosa, significa il diritto di dire alla gente ciò che non vuole sentire George Orwell, scrittore e giornalista britannico
Una sedia che calpesta la dignità
Sta facendo il giro del mondo il video in cui la Presidente della Commissione Europea Ursula Von der Leyen viene lasciata senza sedia da Erdogan durante un incontro ufficiale.
Oltre all’insulto politico da parte del presidente turco verso la massima esponente delle istituzioni europee, mi colpisce ancor più il comportamento riprovevole del Presidente del Consiglio Europeo Charles Michel, anch’esso presente all’incontro e che nel video sembra totalmente indifferente a ciò che sta avvenendo.
Se infatti non sorprende più di tanto il maschilismo di Erdogan, reo alcune settimane fa di aver fatto uscire la Turchia dalla Convenzione di Istanbul (il cui scopo è combattere la violenza contro le donne), risulta vergognoso che il Presidente del Consiglio Europeo di fronte a tale oltraggio non abbia ceduto la propria sedia.
Avrebbe dovuto farlo per rispetto verso il ruolo della presidente della commissione europea, per buona educazione verso una donna, ma anche per protesta contro la mancanza di rispetto dei diritti umani e della dignità delle donne turche.
Invece no… forse perché L’Europa è disposta a piegarsi ancora e ancora sotto il ricatto di Erdogan che riceve soldi da tutti gli stati europei per non aprire le proprie frontiere agli extracomunitari che tentano di raggiungere l’Europa.
Ma fino a dove siamo disposti a piegarci, a rinunciare alla nostra dignità e soprattutto ai diritti di uguaglianza conquistati con sacrificio e presenti nelle nostre costituzioni, in primis quella italiana?
Ciascun volto è il simbolo della vita. E tutta la vita merita rispetto. È trattando gli altri con dignità che si guadagna il rispetto per se stessi Tahar Ben Jellounscrittore, poeta e saggista marocchino
Giornata internazionale dei diritti della donna. Di parola ma non di fatto
È da poco trascorsa la Festa della donna o, come ben definisce Wikipedia, la Giornata internazionale dei diritti della donna che ricorre l’8 marzo di ogni anno per ricordare sia le conquiste sociali, economiche e politiche, sia le discriminazioni e le violenze di cui le donne sono state e sono ancora oggetto in molte parti del mondo.
Mai come quest’anno tg e social media ci hanno riempito di dati allarmanti: sulle conseguenze psicologiche, sugli abusi all’interno delle mura domestiche aumentati durante il lockdown, sui femminicidi che macchiano ancora drammaticamente il nostro paese.
Si è parlato anche di calo dell’occupazione femminile durante l’emergenza Covid, che in Italia è stato il doppio rispetto alla media Ue, con 402mila posti di lavoro persi tra aprile e settembre 2020.
Ma ciò che più mi ha stupito è stato il sentire tanti titoli senza articoli, ossia slogan di denuncia senza però un testo che riportasse proposte, ipotesi di soluzioni con la volontà di affrontare concretamente le tante problematiche che attanagliano il mondo femminile in Italia e che sono alla base del costante calo demografico nel nostro paese.
Le donne infatti sono delle incredibili equilibriste, specie coloro che tentano di gestire al meglio contemporaneamente la famiglia, il proprio lavoro, la casa… tentando di non cadere mentre si procede tra impegni e problemi quotidiani, senza trovare da parte delle istituzioni soluzioni che agevolino quel senso di responsabilità onnicomprensivo che la nostra società si aspetta da chi appartiene al genere femminile.
Non voglio riferirmi in particolare a questo ultimo anno, dove tutti possiamo solo immaginare la difficoltà di una mamma che tenta di lavorare in smartworking tra strida dei bimbi più piccoli e richieste di aiuto da parte dei figli in età scolare alle prese con la didattica a distanza.
Il problema riguarda più genericamente la mancanza di servizi adeguati alle diverse tipologie di lavoro. Un esempio su tutti: l’orario di una scuola materna che spesso termina a metà pomeriggio a fronte di un orario full time dei genitori. In altri paesi è la normalità per una commessa chiudere il negozio alle 19,00 e recuperare il proprio bambino nel vicino asilo, lavorare in una multinazionale e usufruire della scuola materna interna all’azienda. In Italia la normalità per i genitori è contare sui nonni che recupereranno i nipoti all’asilo e a scuola, li porteranno a calcio o a danza, faranno fare loro i compiti. E chi non ha i nonni vicini o non ancora pensionati? Si sceglierà un asilo privato ben più costoso di quello pubblico ma con maggiore flessibilità di apertura, oppure si ricorrerà a babysitter, oppure ancora si spererà di ottenere un part time o ci si licenzierà esauste di correre all’inverosimile per fare quadrare tutto ma non riuscendovi mai del tutto.
Il problema non è solo legato ad una questione di orari e mancanza di servizi: è e sempre sarà intrinseco nella donna il senso di colpa nell’avere cercato una propria gratificazione nel lavoro a scapito del tempo da dedicare ai figli. Un senso di disagio e di inadeguatezza che accompagnerà la donna fino a farle perdere parte della fiducia che aveva in sé stessa. Anche per questo lo stato deve dimostrare sensibilità ed attenzione al mondo del lavoro femminile.
Un lavoro peraltro trovato spesso con difficoltà e sacrificio perché, ammettiamolo con trasparenza, di fronte a due candidati di sesso diverso di pari competenza e talento, un’impresa ha la convenienza ad assumere un uomo, perché la donna potrebbe poi sposarsi, assentarsi per la maternità, con la conseguente necessità di trovare e formare un suo sostituto per tale periodo, potrebbe poi chiedere il part time oppure assentarsi frequentemente per problemi legati ai figli …
E allora ecco che è qui che dovrebbero intervenire le istituzioni. Invece di limitarsi a lanciare slogan come “le pari opportunità esistono solo a livello legislativo e non di fatto” si facciano proposte concrete: maggiori servizi e più flessibili per venire incontro a tutte le lavoratrici, una minore imposizione fiscale e contributiva per le aziende che assumono le donne, contributi alle aziende che offriranno servizi nursery al proprio interno…
Proposte forse semplicistiche, di certo non esaustive perché di fronte alla complessa problematica vi possono essere numerose soluzioni diverse e migliori, ma si tratta pur sempre di esempi di soluzioni concrete (peraltro finanziabili con il recovery fund) che oggi ancora mancano in un paese capace di autocriticarsi ed evocare buone intenzioni, ma ancora incapace di analizzare con obiettività le tante difficoltà che le donne affrontano ogni giorno e di trovarne finalmente le soluzioni.
“Le vie dell’inferno sono lastricate di buone intenzioni” San Bernardo
Salvare la bellezza per salvare l’umanità
“Il corpo ritrovato nel deserto probabilmente è di Khaled al Asaad”, ad annunciarlo è stata l’agenzia governativa siriana Sana, riferendosi all’archeologo che venne decapitato nel 2015 dall’Isis perché reo di aver protetto il suo museo.
La notizia mi ha suscitato subito una molteplicità di emozioni: eroismo, arte, bellezza… e ho pensato di condividere questa riflessione con voi.
Nel 1963 Khaled al Asaad fu nominato direttore del museo e del sito archeologico della città siriana di Palmira, carica che mantenne per più di quarant’anni. Riconosciuto come uno dei più importanti esperti nel campo dell’archeologia in Siria, fu proprio grazie al suo lavoro sulle prime civiltà insediatesi a Palmira che la città venne riconosciuta dall’UNESCO patrimonio dell’umanità.
A metà luglio del 2015 il famoso archeologo fu rapito dai militanti dello Stato Islamico e ripetutamente torturato affinchè svelasse dove si trovavano antiche e preziose opere d’arte nascoste prima dell’arrivo dei terroristi dell’ISIS. Dopo settimane di torture senza mai svelare il nascondiglio, il 18 agosto 2015 Asaad fu ucciso e il suo corpo decapitato e appeso ad una colonna.
Il suo è stato un vero atto di eroismo davanti alla follia distruttiva dell’ISIS, un sacrificio per salvare opere che voleva lasciare ai posteri, di cui lui conosceva il valore storico e la profonda bellezza.
Già, la bellezza… nulla di più soggettivo, o forse no…
Un concetto che ha catturato l’attenzione di studiosi e filosofi di tutto il mondo, consapevoli di quanta importanza potesse avere per l’umanità.
Bello, secondo Platone, è solamente ciò che coincide con il bene e kalòs kai agathòs (bello e buono) era l’ideale dell’eroe greco.
Aristotele, nell’elogiare l’arte quale strumento per suscitare passioni ed un effetto catartico sugli spettatori, è convinto che «le principali forme della bellezza sono l’ordine, la simmetria e il limite».
Per sant’Agostino la bellezza è addirittura emanazione della bellezza divina, che può essere colta dall’uomo con la propria anima: l’uomo percepisce una cosa come “bella” quanto più quella cosa si avvicina al divino.
Mentre la maggior parte dei pensatori antichi e di quelli medievali pone la bellezza oggettivamente al di fuori dell’osservatore, nel Settecento il filosofo scozzese David Hume sosterrà che «la bellezza non è una qualità intrinseca alle cose, ma esiste soltanto nella mente che le contempla, e ogni mente percepisce una bellezza diversa».
E un secolo dopo Georg Wilhelm Hegel affermerà che tutto ciò che è ideale è superiore a ciò che appartiene al mondo fisico e che l’essenza della bellezza può trovarsi solo nell’arte, in quanto essa origina dallo spirito, e non dal mondo naturale. Per Hegel il fine ultimo dell’arte non è quello di imitare la realtà, né quello di suscitare sentimenti: si tratta, piuttosto, di rivelare la verità attraverso una rappresentazione “sensibile”, cioè percepibile attraverso i sensi. L’opera d’arte riesce in tale intento perché è in grado di mediare tra spirito e materia, tra particolare e universale. In questo senso, l’arte rappresenta una tappa verso la liberazione dai limiti della natura e il ritorno alla piena comprensione di sé.
Ed eccoci giunti al concetto di bellezza da un punto di vista psicologico, quel sentimento di elevazione che può divenire bellezza morale. Ma esiste davvero?
Ebbene io ne ho avuto la conferma alcuni anni fa, quando accompagnai assieme agli insegnanti di mia figlia la sua classe di quinta elementare al Teatro alla Scala di Milano per assistere ad uno spettacolo dedicato ai più piccoli. Come era naturale tutti gli alunni stavano affrontando la visita come una delle tante gite scolastiche in cui svagarsi e divertirsi. Ma quando entrammo nel teatro successe qualcosa di sorprendente: tutti i ragazzini, compresi quelli tradizionalmente più vivaci, ammutolirono improvvisamente, la bocca semiaperta, lo sguardo rivolto verso la platea, i palchi, i tendaggi color rubino, le preziose decorazioni, gli stemmi dorati, i lampadari di cristallo… La bellezza li aveva non solo stupiti ma anche trasformati: il rispetto verso quell’incredibile eleganza era divenuto il rispettoso silenzio con cui avevano assistito all’intero spettacolo ed ammirato l’interno del teatro più bello del mondo.
Sull’argomento merita citare anche le parole di Peppino Impastato, vittima della mafia a cui non volle piegarsi: «Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura e l’omertà. All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore, da operazioni speculative, ci si abitua con pronta facilità, si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di come erano quei luoghi prima, ed ogni cosa, per il solo fatto che è così, pare dover essere così da sempre e per sempre. È per questo che bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore».
È lo stesso pensiero dello scrittore russo Dostoevskij, convinto che la nostra capacità di sperimentare il senso del bello possa influenzare le nostre emozioni, i pensieri, le intenzioni e persino le nostre azioni verso l’altro.
E questo lo aveva ben capito Khaled al Asaad, quando si oppose alla distruzione delle opere di Palmira, che racchiudevano in sé quella bellezza di cui non voleva che fosse privata l’umanità. Un suo sacrificio, il suo, che ci deve ricordare come la bellezza sia una delle strade che conduce ad un senso di vicinanza e universalità rispetto al prossimo.
“La bellezza salverà il mondo”, Fëdor Michajlovič Dostoevskij
Quando tanti piccoli uomini possono fare la differenza
Non vi nascondo di essermi divertita non poco a leggere quanto è avvenuto pochi giorni fa in borsa relativamente alle azioni di Gamestop: piccoli investitori hanno avuto (anche se per poco) il sopravvento sui grandi esperti finanziari a cui tradizionalmente viene associata (e solo a loro) la capacità di prevedere e influenzare l’andamento economico e il destino di un’azienda quotata.
Vediamo cosa è successo.
Gamestop è una catena di negozi di videogiochi. Come potete immaginare, nell’epoca di Amazon, dei videogiochi scaricati direttamente dalle console e, nell’ultimo anno, della pandemia, la società ha visto diminuire sempre più il valore delle azioni quotate sul mercato, che nel 2007 era di 62 dollari e a metà del 2020 era di soli 5 dollari.
Gli esperti di finanza, se da una parte comprano le azioni di un’azienda quando pensano che il suo valore aumenterà, dall’altra “shortano” (in italiano: vendono allo scoperto) con un’azienda in crisi come Gamestop, ossia si fanno prestare un’azione scommettendo che in futuro varrà meno, la vendono subito e la riacquistano quando avrà perso valore ad un costo inferiore, così da restituirla guadagnandoci su (inoltre la prima vendita contribuisce a far abbassare il valore dell’azione stessa).
Il bello viene ora: al contrario delle previsioni degli esperti, l’azione di Gamestop improvvisamente subisce un incredibile balzo in avanti e raggiunge quota 347 dollari (+ 134% rispetto al giorno prima) e tutto grazie al subforum del sito americano di Reddit, dove oltre due milioni di appassionati di finanza (più o meno incoscientemente) hanno deciso di giocare con le azioni di Gamestop facendone schizzare il prezzo e scatenando le ire di Wall Street. Non solo sono riusciti a modificare il prezzo dell’azione di un’azienda in crisi (acquistandola in massa), ma hanno anche obbligato gli “esperti” ad acquistare in tutta fretta le azioni che avevano venduto (per limitare le perdite, dal momento che dovevano ancora restituirle), contribuendo involontariamente anche loro a far ulteriormente alzare il valore del titolo.
Ovviamente nell’arco di poco tempo le principali piattaforme di brokeraggio hanno cominciato a impedire la compravendita di azioni e la stessa SEC, l’autorità di vigilanza della borsa americana, ha iniziato a monitorare la situazione e le azioni sono nuovamente cadute a picco.
La cosa interessante è che non è la prima volta che titoli societari vengono presi di mira da tanti piccoli investitori e questa volta la notizia ha fatto il giro del mondo: il concetto che passa è che comuni cittadini, se compatti, possono fronteggiare (e superare) le grandi istituzioni finanziarie e modificare il destino di intere società.
E se un giorno si facesse altrettanto con le aziende che producono armi, quelle che creano danni all’ambiente o quelle che sfruttano il lavoro minorile?
Un sogno, certo, e non è scontato che in tanti si impegnino per una finalità etica e non per un proprio ritorno economico, però chissà… mai dire mai… 😉
Intanto Wall Street è avvisata: nessuno è intoccabile.
Tu puoi disegnare, creare e costruire il posto più bello del mondo. Ma ci vogliono le persone per rendere il sogno realtà, Walt Disney
La memoria del passato per sapere riconoscere le ingiustizie anche nel presente
Questa mattina sono stata colpita da una notizia di cronaca: giovani tra i 20 e i 30 anni arrestati a Licata per avere picchiato selvaggiamente dei disabili e avere poi postato le scene della violenza sui social… proprio oggi, nella giornata della memoria, quando bisognerebbe interrogarsi sull’abisso a cui può portare la crudeltà umana.
Partiamo dai fatti storici. La notte del 22 luglio 1944 gli uomini dell’Armata Rossa giunsero al campo di concentramento di Majdanek e lo liberarono; le SS in fuga avevano dato fuoco agli edifici bruciando solo le parti in legno e così vennero scoperti per la prima volta i forni crematori, le camere a gas, le confezioni di Zyklon B, le fosse comuni… Successivamente vennero conquistate le zone in cui si trovavano i campi di sterminio di Belzec, Sobibor e Treblinka. Poi, esattamente 76 anni fa, il 27 gennaio del 1945, le truppe sovietiche liberarono il campo di concentramento di Auschwitz, da cui 10 giorni prima i nazisti si erano rovinosamente ritirati portando con loro, in una marcia della morte, tutti i prigionieri sani, molti dei quali morirono durante la marcia stessa.
La scoperta dei campi di sterminio mostrarono e dimostrarono al mondo intero la tragedia nella tragedia: all’interno del terribile conflitto mondiale si scoprì la crudeltà della prigionia, delle torture e della morte nei lager nazisti, dove perirono milioni di ebrei, oltre a disabili, omosessuali, slavi, dissidenti che, per motivi razziali o politici, condivisero la stessa sorte di pulizia etnica.
Nel 2005 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite stabiliva il 27 gennaio quale ricorrenza internazionale per commemorare le vittime dell’Olocausto, mentre in Italia gli articoli 1 e 2 della legge 20 luglio 2000 n. 211 avevano già definito le finalità e le celebrazioni del Giorno della Memoria: «La Repubblica italiana riconosce il giorno 27 gennaio, data dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, “Giorno della Memoria”… sono organizzati cerimonie, iniziative, incontri e momenti comuni di narrazione dei fatti e di riflessione, in modo particolare nelle scuole di ogni ordine e grado, su quanto è accaduto… in modo da conservare nel futuro dell’Italia la memoria di un tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese e in Europa, e affinché simili eventi non possano mai più accadere”.
Ma forse scuole, istituzioni e famiglie hanno avuto fino ad ora il limite di legare la crudeltà umana ai soli tragici fatti avvenuti nei campi di sterminio, senza spiegare ai nostri ragazzi che non c’è poi molta differenza tra la violenza di un soldato contro un uomo inerme in un campo di prigionia ed un giovane dei giorni d’oggi che compie violenza su indifesi disabili.
Inutile leggere i versi di Primo Levi se poi non si è capaci di riconoscere tracce di disumanità anche nel nostro quotidiano.
Partiamo da un presupposto: l’uomo non corrisponde alla semplice visione rousseauiana di persona pura e cristallina che viene poi corrotta unicamente dalla società; certo molti tra coloro che si sono macchiati di crimini indicibili provengono da situazioni sociofamiliari degradate, ma la cronaca ci ha fatto conoscere anche reati efferati avvenuti per mano di figli di papà, violenze, umiliazioni, uccisioni, stupri nati soprattutto dalla crudeltà insita in quei stessi responsabili. Torna alla mente l’amara constatazione dei Pensieri di Blaise Pascal: “come è vuoto di bene e come è pieno di immondizia il cuore dell’uomo”.
Ma davanti alla propensione alla malvagità a cui tutti potremmo essere tentati, la differenza è fatta da chi sceglie di essere umano anziché bestia, da chi isola i colpevoli anziché tollerarli.
Scelte coraggiose, come quelle degli oltre 27.700 “giusti”, ossia persone provenienti da oltre 50 paesi che hanno aiutato gli ebrei a salvarsi sacrificando anche la propria vita. Scelte coraggiose come quelle di genitori e amici che scelgono di denunciare chi ha commesso reati gravi, specie verso i più deboli incapaci di difendersi.
Già perché se sappiamo bene che l’umanità partorirà sempre uomini capaci di spietata insensibilità e addirittura compiacimento nei confronti dell’altrui dolore ed umiliazione, la differenza la potremo fare tutti noi isolando i responsabili e facendo sentire loro i veri “diversi”.
“Siamo chiamati tutti a vigilare” – ha detto oggi il Presidente Mattarella nella ricorrenza della Giornata della Memoria – e io penso che lo potremo farlo concretamente decidendo di non rimanere indifferenti davanti alle ingiustizie, non tollerando più e non chiudendo gli occhi davanti alla violenza perché, come diceva Goya, “il sonno della ragione genera mostri” e chi fa finta di non vedere ne diventa in qualche modo corresponsabile.
“Si può scegliere da che parte stare, ogni giorno, ogni minuto della propria vita” Liliana Segre
Pro o contro immigrazione? E se la domanda giusta non fosse questa?
Per quanto da settimane i notiziari ci stiano convincendo che tutto il mondo giri esclusivamente attorno a tre notizie… Covid, politica italiana e presidenziali in USA, forse non vi saranno sfuggite le impressionanti immagini di migliaia di migranti che a piedi e con mezzi di fortuna stanno cercando di attraversare gli stati del centro America, probabilmente incoraggiati dai discorsi di Biden.
Una marea di 8-9.000 persone che sperano di raggiungere gli Stati Uniti, molte delle quali provenienti dall’Honduras devastato dagli uragani Eta e Iota e altre provenienti da altri paesi attraversati durante il viaggio e che lasciano i propri pochi averi per cercare fortuna in un paese più ricco e con maggiori opportunità di lavoro.
Ora la domanda non è solo se le migliaia di disperati riusciranno a giungere negli USA, ma quale sarà davvero il loro futuro se dovessero riuscirvi.
Partiamo da un dato di fatto: l’uomo è sempre stato in movimento alla ricerca di migliori condizioni di vita. Si parte perchè vittime di fenomeni naturali come un terremoto oppure di vicende umane come guerre e povertà, e sappiamo che non c’è ostacolo che tenga: nè naturale come catene montuose e mari, nè difese artificiali come muri e reticolati…. chi vuole andarsene dal proprio paese prima o poi ci riuscirà.
Lo sappiamo bene anche in Italia, dove da diversi anni vediamo lo sbarco quotidiano di migranti stranieri sulle nostre coste.
Ebbene ciò che mi ha sempre stupito è come i giudizi nel nostro Paese si siano sempre divisi semplicemente e banalmente tra pro e contro immigrazione, senza analizzare in modo concreto le dinamiche legate ai flussi migratori e senza mai lavorare ad una proposta realizzata con buon senso che favorisse sia le popolazioni autoctone sia quelle immigrate.
Se è vero che nessuno può proibire ad un altro uomo di cercare una vita migliore ed è naturale che ciò avvenga verso i paesi più sviluppati, dall’altra non si può non ammettere come l’ingresso di numerosi immigrati in uno stato dove non si integreranno, possa portare a gravi conseguenze: da una parte molti stranieri cadranno nelle mani della criminalità organizzata divenendo malviventi o schiave delle reti che gestiscono la prostituzione, dall’altra cresceranno i sentimenti di intolleranza e discriminazione verso coloro che saranno considerati solo un problema per la propria nazione.
A tal proposito ho trovato per l’Italia un dato aggiornato al 2019, quando i detenuti stranieri delle carceri erano il 33,6% del totale di tutti i detenuti: un dato notevole se si considera che gli stranieri residenti costituiscono solo l’8,7% della popolazione complessiva.
Ora non ci vuole molto per capirlo: tra chi raggiunge la tanta desiderata meta senza poi trovarvi alcuna opportunità di lavoro e di benessere vi sarà senz’altro chi ripiegherà con lavoretti di fortuna, chi verrà raggirato, chi diverrà un delinquente.
E se invece il suo arrivo in Italia fosse stato condiviso dal nostro Paese? Ipotizziamo cioè un viaggio e una collocazione programmati: al suo arrivo lo straniero non giunge in centri da cui sperare di fuggire, bensì viene trasferito direttamente presso aziende alla ricerca di manovalanza, dove trovare un domicilio che potrà pagare con parte del proprio stipendio e corsi obbligatori sulla lingua italiana e sulle leggi del nostro paese. Fantascienza? Eppure ogni anno ci vengono riportati dati sorprendenti: da una parte una crescente disoccupazione (e dopo un anno e più di Covid la situazione non potrà che peggiorare drammaticamente), dall’altra la difficoltà degli imprenditori del Belpaese nel reperire personale, in particolare in alcuni settori dove gli italiani non vogliono più essere impiegati e in alcune aree del paese ormai abbandonate dai giovani (si pensi all’agricoltura, all’allevamento e alla manutenzione dei boschi in prossimità dei piccoli borghi isolati).
Si dovrebbero considerare anche la presenza di stranieri qualificati, le criticità legate inevitabilmente ai primi periodi dell’integrazione, e il tutto dovrebbe partire da una forte collaborazione con il paese d’origine di tali immigrati: ambasciate e consolati già ivi presenti dovrebbero gestire in collaborazione con le autorità del luogo la divulgazione di tutte le informazioni per cui si debba preferire ad un viaggio rischioso ed illegale una scelta che è programmata dal paese in cui intendono andare. Ciò consentirebbe a quest’ultimo di poter gestire il flusso di immigrati sul proprio territorio, di interloquire con il proprio tessuto economico (piccole e grandi imprese, artigiani, commercianti, agricoltori) per favorirlo con manodopera difficilmente reperibile tra la popolazione residente. E, cosa altrettanto importante, ciò consentirebbe l’integrazione di tali stranieri nel nuovo paese, di cui impareranno la lingua, le leggi, ne rispetteranno gli usi ed i costumi, venendo così riconosciuti come parte integrante dalle comunità in mezzo a cui risiederanno.
L’obiettivo raggiunto sarebbe anche quello di fermare l’arricchimento di gruppi criminosi senza scrupolo, le violenze e gli stupri subiti durante il viaggio, la morte di migliaia di uomini trasportati su barconi stracolmi e in condizioni disumane.
So bene che la mia è una proposta troppo semplice per risolvere un problema estremamente complesso, e che non prende in considerazione una miriade di fattori, ma vuole essere soprattutto una provocazione a fronte di una situazione che i “paesi ricchi” sembrano continuare a tollerare senza investire in una visione strutturata che diminuisca la clandestinità e i problemi che ne conseguono.
E per chi pensa che ciò non sia possibile, ricordo l’esempio di Agitu Ideo Gudeta, pastora di 42 anni fuggita dall’Etiopia, che recuperò alcune razze autoctone di capre dando vita ad un allevamento e ad un caseificio in Trentino; forse pochi sanno che la sua attività era stata riconosciuta anche da Slow Food e dall’Expo di Milano nel 2015, durante il quale aveva rappresentato proprio il Trentino.
Al suo funerale erano presenti molti dei cittadini della valle in cui viveva ormai da 10 anni e la “Regina delle capre felici” rimarrà per loro il più bell’esempio di un’integrazione davvero riuscita, fondata su una delle attività più nobili che esistano: il lavoro.“L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro” Costituzione Italiana, Art.1
Ritrovare l’amore per sè e per gli altri per ritornare a vivere
Quanti amici abbiamo che soffrono di depressione? La cosiddetta “ombra nera” che incupisce chi ha subito lutti, abbandoni, delusioni, insuccessi, ma anche chi incomprensibilmente non sente più la gioia di vivere, non trova più un senso nella propria esistenza.
Senza avere la presunzione di voler semplificare e trovare banalmente una soluzione ad una patologia oggetto di studio della psicoanalisi da più di un secolo, voglio però porre un tema di riflessione raccontando un fatto di cronaca che mi ha particolarmente colpito, quello di Enrico Abumhere.
Enrico era un giovane calciatore promettente, di origine nigeriana, appassionato e con la speranza di entrare a far parte delle società calcistiche più famose. A diciotto anni ha un incidente in allenamento e le successive visite ed analisi gli rilevano che il suo dolore alla coscia è dovuto ad un tumore raro, un osteosarcoma. La drammatica scoperta gli cambia radicalmente la vita: “Mi è crollato il mondo addosso… ho subito tredici cicli di chemioterapia e ho sperato di risolvere con una protesi interna, ma il tumore saliva… Così, non ho più la gamba destra e ho avuto un periodo durissimo, ma sono credente e so che quando si chiude una porta Dio ti riserva un piano B che sarà molto più bello. Questa sarà la mia rivincita”.
Le sue sono parole profonde come un martello che incide con forza la roccia del male e del dolore, per farne poi uscire un ruscello fatto di speranza e di voglia di vivere, ancora.
E così a 21 anni, rassegnatosi all’idea di non potere inseguire la strada del calcio, decide di investire capacità ed energia in quella che è un’altra delle sue passioni: la musica. Diviene così un rapper e le sue canzoni sono oggi un riferimento per tanti ragazzi vicini e lontani che “hanno sofferto come me e che ora mi scrivono e io sono la loro voce”. Grazie a YouTube viene conosciuto ed apprezzato sempre di più e la sua canzone ’Enrico’ raggiunge le 200mila visualizzazioni”.
Il video è ambientato nel suo quartiere di Bologna e fa riferimento all’ospedale dove ha vissuto il suo calvario, alla disperazione di sua madre, alla protesi della sua gamba, ma anche alla constatazione di come il dolore non possa più fargli male. La canzone è dedicata “a tutti i ragazzi che hanno sofferto come me e sono negli ospedali, vi voglio bene”.
Ma merita leggerla tutta la sua intervista, perché lui aggiunge: “Ogni problema deve essere affrontato, nessuno può fermare la tua volontà e per questo quando ci siamo trasferiti in Inghilterra, a Manchester, dove mio padre vedeva un futuro migliore per me i miei quattro fratelli, ho resistito solo tre mesi. Poi non ce l’ho fatta più e ho deciso di tornare da solo a Bologna, dove ci sono i miei amici, diventati la mia famiglia. Mi mancavano loro, il cibo, la città e anche la musica e le serate trascorse nel parco di via Rimesse, dove cantavo sempre. Prima era un hobby, ma adesso che scrivo i testi e la musica, vorrei che diventasse qualcosa di più”.
E così è divenuto: la sua scelta, il suo coraggio sono diventati stimolo e speranza per tanti altri giovani. La consapevolezza di essere stato colpito da una malattia rara e terribilmente invasiva non l’ha abbattuto con il rimpianto di essere ingiustamente una vittima ma gli ha insegnato che talvolta bisogna sapere ricominciare.
L’augurio allora è questo: che come Enrico altri possano trovare la forza per uscire dal proprio sconforto e dalla tristezza, magari facendo volontariato, scegliendo di fare qualcosa di utile agli altri, donando loro speranza e ritrovando così in sé la più nobile motivazione di vita.
E la frase di oggi è proprio sua…
Nessuno può fermare la tua volontà” Enrico Abumhere, rapper